da un'idea di "Era un anno a casa" un blog tutto ... da leggere!!!

domenica 20 marzo 2022

Scake recensisce "Il potere del cane" di Thomas Savage

Questo romanzo mi è piaciuto moltissimo. 

Innanzitutto perché l'autore ha scelto di affrontare un tema molto particolare e delicato in un contesto assolutamente inaspettato. 
Ma anche per la sua scrittura: con uno stile sobrio e conciso inquadra i personaggi e li muove con destrezza lungo il racconto, sia nelle relazioni reciproche che nella loro interiorità. Li inquadra e li descrive fuori e dentro, in una sequenza di immagini misurate, ma potenti, come un bravo regista che sa dosare tempi e spazi.



Sono arrivata a quest'opera dopo aver visto il film di Jane Campion che mi piace pensare non abbia dovuto faticare molto per trasporlo sul grande schermo. 
La narrazione del romanzo infatti sembra già l'anticamera di una sceneggiatura: i dialoghi sono brevi, lapidari, gli ambienti e gli scenari vividi come si fosse su un set. 

La storia si svolge nel Montana del 1925 nell'isolato ranch di due ricchi fratelli dove la vita scorre scandita dalle stagioni e dai lavori con le mandrie. Phil e George Burbank si sono divisi le mansioni da svolgere quando gli anziani genitori hanno deciso di passar il resto della loro vita in Salt Lake city. Nulla sembra cambiato nel loro rapporto da quando sono piccoli, dormono ancora nella stessa camera da letto e colmano l'enorme differenza di carattere dialogando in modo molto formale in un equilibrio fatto di lavoro pesante e routine.

Ma è il quieto e timido George a spostare l'ago della bilancia decidendo di sposarsi con la vedova di un medico. La donna porta con se nella tenuta suo figlio Peter e per Phil la vita cambia forzatamente, ma soprattutto inaspettatamente.

In questa storia ogni personaggio risulta interessante, anche il più marginale, e man mano che si procede con la lettura aumenta il desiderio di saperne di più, di capire il perché di certi gesti. 
Quelli di Phil sopra ogni altra cosa. 
Phil il tremendo, Phil l'acuto, Phil lo sprezzante. 

Phil è Benedict Cumberbatch

Phil domina su tutto e tutti e tutti sono costretti a misurarsi con lui e con se stessi. 
Solo in un piccolo prezioso momento si incrina la sua scorza e ne appare la parte vulnerabile, palpitante: il rievocare come un ricordo tenero e meraviglioso quello che ai nostri occhi appare un'esperienza tremenda. Questa breve parentesi nella narrazione apre ad un'amplissima comprensione della sua personalità e riporta Phil tra gli appartenenti al genere umano. 
Lui è centralissimo nella storia. 
Però paradossalmente tanto ingombrante risulta la sua presenza quanto rapido sarà il suo congedo. Infatti il ritmo lento degli eventi è carico di presagi e crea un crescendo di aspettative, ma l'epilogo è sorprendente: il bene trionfa grazie al male in una spiazzante assenza di drammaticità. 

Nonostante il film tratto dal romanzo abbia appena vinto il premio BAFTA per la miglior regia e miglior film, in alcune cose ho percepito da parte della regista il tentativo di aumentare nella narrazione il senso di inquietudine, ad esempio con l'uso di alcuni brani della colonna sonora disturbanti, da thriller. 
Secondo me non ce n'era alcun bisogno: la tensione è palpabile, davvero si può toccarla allungando le mani sotto il velo della convenienza che avvolge tutti i protagonisti di questa storia e che impedisce loro di mettere a fuoco il disagio del proprio vivere e una soluzione possibile per uscirne.
L'unica voce fuori dal coro è l'introverso e il silenzioso Peter, l'unico che ha il coraggio di sollevare il velo e guardare in faccia alla realtà. 
Agli occhi di Peter la soluzione appare chiara, per questo con la tipica spietatezza degli adolescenti egli percorre una strada tutta sua con feroce lucidità e tenace resilienza. 

Ho letto in alcune note biografiche che in Peter l'autore ha identificato se stesso e che il romanzo è parzialmente autobiografico. 
Probabilmente Peter riesce lì dove Thomas non ha avuto la capacità (o il coraggio chissà) di agire, è una sorta di suo alter ego che non potendo riavvolgere il nastro della sua vita e cambiare ciò che è stato si adopera per impedire che quegli eventi si ripetano in futuro. 

Un romanzo a suo modo aspro, come devono esserlo state le vite in certi posti dove la sopravvivenza delle persone dipendeva dalla vita comune, dal vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, dove essere soli equivaleva a essere morti. Ma come sempre se al dovere della protezione reciproca manca l'amore, il dialogo, la comprensione la comunità diventa una prigione, un luogo dove essere giudicati invece che aiutati. Ho visto questa sofferenza nella vita dei fratelli Burbank e degli ospiti del loro ranch. 

Ampiamente consigliato.




mercoledì 26 gennaio 2022

"L'anulare" di Yoko Ogawa

Un libricino sottile, comprato per la bellezza della copertina in verità. 
L'edizione della collana Le Opere del Corriere della Sera dal titolo " La grande letteratura giapponese" l'anno scorso allegava al quotidiano settimanalmente per 25 uscite una serie di romanzi di autori giapponesi degli ultimi decenni. 
La realizzazione delle copertine, affidata ad XxYstudio, utilizzava i toni del bianco, del rosso e delle sfumature di grigio. Sobrie, accurate, ogni volume una piccola opera a sé. 
Questa de "L'anulare" di Yoko Ogawa è tutta bianca.
Davanti il disegno a china rossa di tre funghi, in altro a sinistra in rosso l'autore, in nero il titolo e invece in alto a destra titolo (薬指の標本-Esemplare di anulare) e autore in ideogrammi neri. 
La quarta di copertina riporta rovesciato a 90° in alto a destra un estratto del testo e in basso i disegni delle copertine di tre volumi della collana: il precedente, questo e il successivo. 
Molto elegante. 
Fa venire voglia di sfogliare il libro. 
Fa venire voglia di comprare tutti i volumi. 

Non conosco nulla di questa autrice, so solo che il Saggiatore ha stampato "l'isola dei senza memoria" romanzo di cui ho letto qualche recensione grazie a librogiappone.
 
Inizio la lettura e immediatamente riconosco lo stile di alcuni autori giapponesi contemporanei: lineare, essenziale, pulito, scorrevole. Periodi brevi in cui grande spazio prendono la luce, l'aria, i suoni, le sensazioni. 
Quelle della protagonista non sono propriamente rassicuranti, ma lei procede verso gli inevitabili eventi con passo cadenzato, inflessibile anche di fronte ai molteplici segni inquietanti che l'ambiente e le persone producono. 
La nostra dopo un infortunio sul lavoro si trasferisce da un paese costiero e in città risponde ad un'offerta di impiego per una ditta che è a tutti gli effetti uno spaccato onirico infilatosi in una minuscola crepa della realtà. In un quartiere comune di una città comune si erge un vecchio edificio molto comune che è sede però di una ditta atipica in cui vengono realizzati manufatti atipici grazie ad un atipico artigiano: il signor Deshimaru.
Apro una perentesi: chiamarlo il signor Deshimaru fa tanto scapolone attempato, ma immagino che nella lingua originale non suoni esattamente in questo modo. Sarà sicuramente Deshimarusan dove さん è un suffisso che in giapponese si appone a tutti gli individui maschi adulti, diciamo tutti quelli usciti ormai dalla giovinezza per cui il suffisso è invece くん (kun). Io quindi lo immagino un uomo sui 30-35 anni, maturo e consapevole delle sue capacità, cortese e abbastanza affascinante nella sua risolutezza. Chi però ha avuto accesso alla versione originale può tranquillamente contraddirmi.
La nostra protagonista ne diventerà la segretaria, segretaria di una ditta in cui Deshimaru sembra essere l'unico soggetto.
E tutto quello che capita è strano. 
E' strano il segreto che ruota attorno alla realizzazione dei manufatti o esemplari come li chiama Deshimaru. Non le viene detto cosa effettivamente siano, ma solo perché le persone li richiedano. 
E' strano il modo in cui il rapporto tra Deshimaru e la sua segretaria si evolve. 
Questi piccole briciole di assurdo tracciano un sentiero che la protagonista percorre senza indugio, un Alice nel paese delle Meraviglie, curiosa e quindi imprudente, ma incomprensibilmente remissiva.
Sembra manifestare la consapevolezza di essere padrona della sua esistenza scegliendo di perderla frammento dopo frammento, di fondersi con l'universo totalizzante del signor Deshimaru. 
La rapida progressione di questa perdita cattura il lettore che avanza speranzoso in un riscatto che non avverrà. 
O forse si? 
La lasciamo sull'orlo dell'abisso e ci rendiamo conto che di questa protagonista non conosciamo neanche il nome. 
Il romanzo è breve dal finale sospeso, ma a dire la verità dopo l'ultima parola abbiamo quasi la sensazione che alla fine tutto si compia comunque.

Mi è piaciuto? 
Si, direi che mi è piaciuto però mi ha anche sconcertato, come sempre avviene quando seguendo la trama ci si imbatte nell'imprevedibile.